domenica 18 settembre 2016

3° SCOLASTICA

1 – Il ‘divorzio’ fra teologia e scienza.

Nei secoli XIII-XIV, la consapevolezza che “deduzione” logica (discorso teologico) ed “esperienza” empirica (discorso scientifica) debbano seguire ‘regole’ del tutto ‘indipendenti’ fra loro, viene raggiunta soprattutto grazie alla riflessione circa:
a) la relazione intercorrente, all’interno di un segno, fra ‘significante’, ‘significato’ e ‘referente’;
b) la funzione assunta, dai singoli segni, all’interno di qualsivoglia giudizio o ‘enunciato di verità’.




2 – I “modalisti”: la teoria della ‘suppositio’.

Riguardo la prima, Lamberto di Auxerre e Tommaso di Erfurt precisano che, all’interno di un enunciato, un segno può ‘stare per’ (‘supponit pro’):
  • un oggetto reale - percepibile attraverso i sensi – colto nella sua ‘particolarità’ (ad esempio, ‘Socrate’ nell’enunciato “Socrate è un uomo”, suppositio personalis);
  • un concetto - intuibile per mezzo dell’intelletto – colto nella sua ‘universalità’ (ad esempio, ‘uomo’ nell’enunciato “l’uomo è mortale”, suppositio simplex);
  • un soggetto linguistico o dicibile, inteso come mero ‘signum’ grammaticale (ad esempio, ‘Platone’ nell’enunciato “Platone è nome proprio di persona”, suppositio materialis).

3 – I “terministi”: ‘categoremi’ e ‘sincategoremi’.

Riguardo la seconda, Guglielmo di Shyreswood e Pietro Ispano pervengono invece ad anticipare la moderna distinzione fra:
  • elementi ‘categorematici’ che - nell’assolvere la funzione di ‘soggetto’ (ad esempio ‘Socrate’, ‘Dio’, o ‘anima’) o ‘predicato’ (ad esempio ‘uomo’, ‘mortale’ o ‘eterno’) all’interno di un enunciato - continuano a mantenere una valenza denotativa, cioè a ‘significare’ qualcosa,  anche se ‘avulsi’ dall'enunciato in cui sono utilizzati (nomi, aggettivi, avverbi, etc.);
  • elementi ‘sincategorematici’ che - nell’assolvere la funzione di ‘connettivi’ (“e”, “o”, “ma non”, “eccetto”, etc.) o ‘quantificatori’ (“ogni”, “tutti”, “nessuno”, “ognuno”, “ogni volta” etc.) - perdono ogni valenza denotativa, cioè ‘non significano’ alcunché, allorché vengano considerati ‘separatamente’ dal resto della frase (preposizioni, congiunzioni, etc.).

4 - Guglielmo d’Ockham: “Entia multiplicanda non sunt”.


Con il principio secondo cui non si devono ‘moltiplicare’ gli enti e creare realtà ‘in sovrappiù’ rispetto a quelle che sono effettivamente da spiegare (“entia multiplicanda non sunt sine necessitate”), Guglielmo di Ockham (1280-1347) intende mettere in discussione:
  • non tanto la possibilità che - intenzionalmente (‘intentio’) - la mente umana possa nei suoi discorsi ‘ricorrere’ a segni per riferirsi a questa o a quella 'entità' (esperibile o meno che sia);
  • quanto, piuttosto la necessità che - un tale ricorso ‘implichi’ necessariamente l’esistenza ‘reale’ (e in qualche modo ‘autonoma’ rispetto alla mente stessa)  di ciò cui i segni stessi rimandano.
Fra discorso teologico e discorso scientifico intercorre quindi lo stessa differenza che intercorre fra:
a) discorsi gnoseologicamente costruttivi (quali sono quelli delle scienze empiriche) i cui termini rimandano ad entità (inter-soggettivamente) esperibili;

  • ad es: “Le ciliegie sono qui (spazio), ora (tempo), tante (quantità), rosse (qualità)”, etc.
b) discorsi gnoseologicamente non costruttivi (quali sono quelli del discorso teologico) i cui termini rimandano ad entità (inter-soggettivamente) non-esperibili.

  • ad es: “Dio è Uno, infinito (nello spazio), eterno (nel tempo)”, etc.
Di qui il rifiuto di tutte le tradizionali prove circa l’esistenza di Dio (ex causa, ex fine, etc.), in quanto prove che – assumendo a soggetto logico di predicazioni entità non suscettibili di venir esperite per via empirica (la causa “prima”, il fine “ultimo”, etc.) – possono essere tutt’al più condivise su base “volontaria”, ma mai dedotte per via “razionale”.


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