3° SCOLASTICA
1 – Il ‘divorzio’ fra teologia e scienza.
Nei secoli XIII-XIV, la consapevolezza che “deduzione” logica
(discorso teologico) ed “esperienza” empirica (discorso scientifica) debbano
seguire ‘regole’ del tutto ‘indipendenti’
fra loro, viene raggiunta soprattutto grazie alla riflessione
circa:
a) la relazione intercorrente, all’interno
di un segno, fra ‘significante’, ‘significato’ e ‘referente’;
b) la funzione assunta, dai singoli segni,
all’interno di qualsivoglia giudizio o ‘enunciato di verità’.
2 – I “modalisti”: la teoria della ‘suppositio’.
Riguardo la prima, Lamberto di Auxerre e Tommaso di Erfurt precisano
che, all’interno di un enunciato, un segno può ‘stare per’ (‘supponit
pro’):
- un oggetto
reale - percepibile attraverso i sensi – colto nella sua ‘particolarità’ (ad esempio,
‘Socrate’ nell’enunciato “Socrate è un uomo”, suppositio personalis);
- un concetto
- intuibile per mezzo dell’intelletto – colto nella sua ‘universalità’ (ad esempio, ‘uomo’
nell’enunciato “l’uomo è mortale”, suppositio simplex);
- un soggetto
linguistico o dicibile, inteso
come mero ‘signum’ grammaticale (ad esempio, ‘Platone’
nell’enunciato “Platone è nome proprio di persona”, suppositio materialis).
3 – I “terministi”: ‘categoremi’ e ‘sincategoremi’.
Riguardo la seconda, Guglielmo di Shyreswood e Pietro Ispano pervengono invece ad anticipare la moderna distinzione fra:
- elementi ‘categorematici’ che - nell’assolvere la funzione di ‘soggetto’
(ad esempio ‘Socrate’, ‘Dio’, o ‘anima’) o ‘predicato’ (ad
esempio ‘uomo’, ‘mortale’ o ‘eterno’) all’interno di un enunciato - continuano a mantenere
una valenza denotativa, cioè a ‘significare’ qualcosa, anche se ‘avulsi’
dall'enunciato in cui sono utilizzati (nomi, aggettivi, avverbi, etc.);
- elementi ‘sincategorematici’ che - nell’assolvere la funzione di ‘connettivi’ (“e”, “o”, “ma non”, “eccetto”, etc.) o ‘quantificatori’ (“ogni”, “tutti”, “nessuno”, “ognuno”, “ogni volta” etc.) - perdono ogni valenza denotativa, cioè ‘non significano’ alcunché, allorché vengano considerati ‘separatamente’ dal resto della frase (preposizioni, congiunzioni, etc.).
Con il principio secondo cui non si devono ‘moltiplicare’ gli enti e
creare realtà ‘in sovrappiù’ rispetto a quelle che sono effettivamente da
spiegare (“entia multiplicanda non sunt
sine necessitate”), Guglielmo di Ockham (1280-1347) intende mettere in
discussione:
- non tanto la possibilità che -
intenzionalmente (‘intentio’) - la mente umana possa nei suoi discorsi ‘ricorrere’
a segni per riferirsi a questa o a quella 'entità' (esperibile o meno che sia);
- quanto, piuttosto la necessità che -
un tale ricorso ‘implichi’ necessariamente l’esistenza ‘reale’ (e in qualche modo ‘autonoma’ rispetto alla mente
stessa) di ciò cui i segni stessi
rimandano.
Fra discorso teologico e discorso scientifico intercorre quindi lo stessa
differenza che intercorre fra:
a) discorsi gnoseologicamente costruttivi (quali sono
quelli delle scienze empiriche) i cui termini rimandano ad entità
(inter-soggettivamente) esperibili;
- ad es: “Le ciliegie sono qui (spazio), ora (tempo), tante (quantità), rosse (qualità)”, etc.
b) discorsi gnoseologicamente non costruttivi (quali
sono quelli del discorso teologico) i cui termini rimandano ad entità
(inter-soggettivamente) non-esperibili.
- ad es: “Dio è Uno, infinito (nello spazio), eterno (nel tempo)”, etc.
Di qui il rifiuto di tutte le tradizionali prove
circa l’esistenza di Dio (ex causa, ex fine, etc.), in quanto prove che –
assumendo a soggetto logico di predicazioni entità non suscettibili di venir
esperite per via empirica (la causa “prima”, il fine “ultimo”, etc.) – possono essere
tutt’al più condivise su base “volontaria”, ma mai dedotte per via “razionale”.
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