AURELIO AGOSTINO
VITA E OPERE
354 – 374: nato a Tagaste (presso Cartagine) da padre pagano e madre cristiana, conduce una vita sregolata e dispersiva - di cui avrà in seguito modo di pentirsi (nelle “Confessiones”, e poi nei “Soliloquia”) – ma, insieme, si dedica a studi di grammatica, dialettica e retorica.
374 – 386: si trasferisce a Roma, dove resta deluso dall’incontro
con il manicheismo di Fausto (secondo cui il conflitto fra Bene e male, quali
principii di ‘opposta’ natura ma di ‘eguale’ forza, è destinato a perpetuarsi
in eterno), e quindi a Milano, dove viene invece colpito dall’eloquenza di Ambrogio
(che lo induce a riflettere sul senso morale, oltre che letterale, dei Testi
Sacri).
386 – 430: persa la madre Monica, torna a Tagaste, ove -
acclamato vescovo dalla città d’Ippona - dedica i suoi restanti anni di vita
alla lotta contro le eresie di Donato e Pelagio, e all’esaltazione della verità
del messaggio del cristiano (“De Trinitate”, “De libero arbitrio”, “De Doctrina
cristiana” e “De Civitate Dei”).
”DOVE” E’ LA VERITA ? (IL “DIALOGO” CON DIO).
In Aurelio Agostino, il ‘dialogo’ dal quale 'far emergere' la Verità si offre nei termini di un dialogo con Dio (cioè nei termini dell’implorazione e della preghiera): in quanto dialogo instaurantesi non mai con un ‘io’ tanto impersonale quanto soggettivo (come in Platone) ma, sempre, con un Dio che - solo - può assurgere a garante del Vero come del falso, del Bene come del male, e del Giusto come dell’ingiusto.
Il vero sapere non può infatti provenire:
- nè dagli altri esseri ‘umani’ che, per mezzo di parole 'ereditate' e 'tramandate' (attraverso le generazioni), possono dire anche di entità non ‘esistenti’, e di eventi non ‘accaduti’;
- nè dalle entità ‘naturali’ che, per loro natura, dicono sempre di 'determinazioni' particolari e possibili ('transeunti') - come quantità o qualità, tempo, luogo, etc. - e mai di essenze universali e necessarie ('eterne').
Il vero sapere - e, con esso, la felicità – può provenire solo
da quel ‘maestro
interiore’ che è il Verbo
come ‘Lògos' (‘voce’ della trascendenza
divina) e che, solo, rende immediatamente ‘comprensibile’:
·
sia quando un significante ‘possieda’
o meno un significato;
·
sia quando un significato
‘rimandi’ o meno a un referente reale …
… una prospettiva, questa, nella quale,
riflettere filosoficamente, non significa altro che interrogarsi circa la corrispondenza (o meno) fra ciò che pensiamo in
termini logici (concetto), cioè che esperiamo per via empirica (oggetto)
e ciò che ereditiamo e/o tramandiamo grazie al linguaggio (soggetto).
”PERCHE” FIDARSI DELL’ANIMA ? (IL DUBBIO “RADICALE”).
Nell'intraprendere la sua ricerca, Agostino si sente innanzitutto spinto a superare quella forma particolarmente radicale di dubbio che va sotto il nome di dubbio 'scettico' (= in che misura ci si più 'fidare' della propria stessa anima, in se ‘chiusa’ nella propria soggettività ?) …
… un superamento, questo, che avviene allorchè - disponendosi a 'riflettere'
sul suo stesso 'dubitare' - il dubitante
prende coscienza:
- dell’indubitabilità
del suo ‘dubitare’
(di tutto è possibile dubitare eccetto che del dubitare stesso perché, in
tal modo, il dubitare non fa altro che riaffermare se stesso);
- dell'indubitabilità del suo esistere come ‘entità’ che dubita (come una ‘azione’ rimanda ad un soggetto ‘che agisce’, così il ‘dubitare’ rimanda ad un'anima ‘che dubita’).
Proprio perché in se soggettive, o ‘relative’ (nate dall’atto del dubitare, esse valgono infatti
soltanto per colui che tale atto mette in pratica), tali verità rimandano
inoltre ad una verità
in se ‘oggettiva’ o ‘assoluta’,
di cui l’anima si scopre:
- da un lato ‘partecipe’ (nel coglierne
il manifestarsi in se stessa come ‘pensiero’);
- d’altro lato ‘distinta’ (nel cogliere le ‘idee’, o ‘forme’, come ‘altro’ dal pensare).
SUL TEMPO (INTERIORE).
Come il mondo può esistere soltanto nel tempo (perchè è soltanto "nel" tempo che il mondo stesso può via via ‘divenire’ ciò che è), così il tempo esiste soltanto nell’anima (perché è soltanto nell’anima che, il tempo stesso, può via via ‘manifestarsi’).
Infatti:
- il passato – che non è più – esiste
soltanto come ‘memoria’ delle cose passate;
- il presente – che inizia a morire nel
momento stesso in cui inizia a nascere – esiste soltanto come ‘attenzione
che dura’ (o ‘intuizione’)
per le cose presenti;
- il futuro – che non è ancora – esiste
soltanto come ‘attesa’
delle cose future.
D’altronde, è per Agostino contraddittorio anche il chiedersi cosa mai
facesse Dio ‘prima’ di creare il mondo, o cosa farà ‘dopo’ la fine del
mondo stesso … : perchè il tempo stesso è stato da Lui creato, e non è quindi
mai esistito né mai esisterà, per Lui, né un ‘prima’ né un ‘dopo’.
SUL MALE (METAFISICO, MORALE E FISICO).
Per rispondere alla domanda: “si Deum est, unde malum ? (“se Dio esiste, da dove ha origine il male ?”), Agostino giunge a distinguere fra tre diversi ‘tipi’ di male.
Il male ‘metafisico’ è propriamente parlando un non-Essere o, per meglio dire, ‘sottrazione di Essere';
- Proprio come il buio è, propriamente
parlando, non-luce o, per meglio dire, ‘sottrazione’ di Luce (secondo una
gradualità, di chiara ascendenza emanatista, che va da Dio come 'creatore'
alle entità come 'creature', e dal Bene come ‘Essere’ al male come
‘nulla’).
Il male 'fisico' è invece riconducibile a Dio stesso
come ‘giusta punizione’;
- Dio ricorre al male fisico per correggere la volontà umana, ogni qualvolta questa mostri di venir malamente direzionata (così come il contadino ricorre a delle stecchette di legno per correggere, nel corso della loro crescita, le storture degli arbusti).
Il male 'morale', infine, è
imputabile all’operato dell’uomo stesso.
- ‘distogliendo’ la propria attenzione da ciò che è ‘anima’ (il bene ‘eterno’) per 'volgerla' a ciò che è invece ‘corporeità’ (i beni ‘temporali'), l’essere umano distoglie il proprio sguardo da quella che è la sede stessa di Dio, quale Bene supremo da cui ogni altro bene discende.
IL RAPPORTO FRA LIBERTA’ E GRAZIA.
Per Pelagio, il peccato originale non ha compromesso irrimediabilmente ma solo ‘indebolito’ la capacità umana di distogliere la propria volontà dai beni (mondani) per tornare a volgerla al Dio (oltremondano): una tesi, questa, che rischiava però d'indurre i fedeli a credere che – come pecore “allontanatesi” dalla casa del Pastore – sia sufficiente "soltanto" il sapere che “esiste” la casa del Pastore per potersi salvare ... anche senza "voler" tornare ad essa.
A tale convinzione, Agostino risponde sostenendo che:
a) mentre ‘prima’
della rivelazione la grazia è condizione 'non' necessaria ‘nè’
sufficiente:
- ancora ‘inconsapevole’ della differenza tra ciò
che “è” (spiritualmente) 'in intellectu' e ciò che “non-e” (materialmente) 'in
re' – l'uomo è portato ad assecondare sempre più la propria volontà (di beni terreni)
e sempre meno la Volontà di Dio;
b) ‘dopo’
la rivelazione la grazia è invece condizione 'necessaria' ma 'non’
ancora sufficiente:
- oramai ‘consapevole’ della differenza intercorrente fra
ciò che “è” (spiritualmente) 'in intellectu' e ciò che “non-e” (materialmente)
'in re' – l'uomo è portato ad assecondare sempre più la Volontà di Dio e sempre
meno la propria volontà (di beni terreni).
Utilizzando la metafora del sub e della boa, potremmo quindi asserire che:
- Prima = il subacqueo NON SA della boa cui tornare (la pecora NON SA ancora della casa cui tornare);
- la "Grazia" = il subacqueo SI ACCORGE della boa (il Pastore “chiama”);
- Dopo = il subacqueo SA della boa cui tornare (la pecora SA finalmente della casa cui tornare).
CITTA’ CELESTE (I GIUSTI) E CITTA’ TERRENA (GLI EMPI).
Nel 410, i goti di Alarico mettono Roma a ferro e fuoco e – oramai infranto il mito dell’inviolabilità imperiale – gli esponenti più in vista della cultura pagana tornano per l'ennesima volta ad accusare i cristiani di essere i principali 'responsabili' della decadenza etico-sociale, e civile, della loro civiltà.
Con il “De civitate Dei”, composto dal 413 al 426, Agostino risponde a tali accuse affermando che – non diversamente da quanto accade nel cammino esistenziale dei singoli individui – anche il cammino storico dell’intera umanità appare caratterizzato da una lotta fra:
- la Città celeste abitata dai giusti, mossi da un amore per Dio (‘Amor Dei’ = amore per ciò che ‘è’ eternamente) portato fino all’estremo disprezzo del mondo;
- la città terrena abitata dagli empi, mossi da un amore per il mondo (‘amor sui’ = amore per ciò che 'diviene' nel tempo) condotto fino all’estremo disprezzo per Dio.
Mescolate fra loro fin dall’inizio dei tempi – cioè non 'distinguibili' esteriormente - le due città giungeranno a ‘dividersi’ soltanto alla ‘fine dei tempi’ … : allorché la massa degli empi (che hanno scelto di vivere ‘senza legge’ divina) verrà separata dal Buon Pastore dal gregge dei giusti (che hanno scelto di vivere ‘sotto la legge’ divina).
Soprattutto, il “De Civitate Dei “ è da considerarsi il vero e proprio ‘manifesto’ dell’età medioevale ... perchè, in esso, si presenta per la prima volta quella concezione 'lineare’ del tempo secondo cui, ogni 'momento' dell’esistenza umana, assume un senso o significato:
a) non “in se” stesso (come momento che - sempre 'uguale' a se stesso - è destinato a riproporsi in futuro così come si è riproposto in passato);
b) ma ‘alla luce’ di una causa passata e/o 'in vista di' un fine futuro (come momento che – dal male al Bene – ognuno è chiamato a render sempre 'diverso' dagli altri).
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